La scorsa estate mi sono regalata una macchina fotografica. Dopo un anno di maldestri tentativi sempre in modalità “automatico” mi sono decisa ad iscrivermi a un corso di fotografia per principianti.
Ogni martedì, macchina al collo, imparo a impostare ISO, diaframma, tempo di posa. Metto a fuoco, sfuoco, imparo a osservare, osservo lavori di fotografi importanti, analizzo immagini. Ogni settimana ho un compito per casa.
Questa volta dovevo fare alcune foto che insieme raccontassero una storia. Si chiamano foto in serie o in sequenza. Ci penso un po’. Cosa raccontare? Io me la cavo con le parole ma questo è un racconto del tutto diverso. O forse non troppo, in fondo. Così penso a cosa mi piacerebbe scrivere. E un’idea arriva.
Tornerò a casa. A Zola Predosa. Dove sono stata bambina, adolescente, giovane donna. Dove ogni volta che torno il mio cuore sente calore. Dove c’è la nostra casa. Dove papà tiene insieme i meravigliosi pezzi di un’esistenza in parte scomparsa ma ancora viva in noi e nei luoghi che, loro sì, di solito restano.
Così ho preso la mia Sony, una giacca con il cappuccio, perché piove, e ho girato con la macchina, guidata da una mappa non scritta, disegnata dai ricordi.
Prima tappa: prima fotografia. Le vigne che costeggiavo ogni mattina lungo la Bardona, così qui chiamiamo la strada che da Zola porta a Ponte Ronca. E che, quando ero bambina, ci portava a scuola. Ricordo che la percorrevamo in auto, e mamma mentre guidava ci faceva dire la preghiera, o ripassare per una verifica. Commentavamo la bellezza dei campi che ad ogni stagione cambiavano colore e ci ricordavano il passare del tempo. E cantavamo. Ancora oggi mi piace passare di lì. C’è la villa che era del Dott. Pieri, il mio dottore, il dottore di tutti. Uomo buono e amato. La casa di qualche compagna di classe. I tramonti infuocati.
Seconda tappa: seconda fotografia. L’Abbazia dedicata ai Santi Nicolò ed Agata. Se c’è un luogo capace di raccogliere una vita intera questo è la chiesa di Zola. La storia della mia famiglia ha ruotato sempre attorno a quel sagrato e alle sue scale. Ricordo che per noi era un po’ come San Luca per i Bolognesi. Quando tornavi a casa da un viaggio e vedevi il campanile significava che eri arrivato. Il viale in salita ti avvicinava al ritorno. È sempre stato emozionante per me ritrovarlo. Anche oggi. In quella chiesa ho fatto la prima comunione, le recite parrocchiali, la madrina di battesimo a mia sorella. Mi sono sposata. Ho festeggiato i cinquant’anni di matrimonio dei nonni. Poi li ho salutati un’ultima volta. Mi sono commossa ai quarant’anni di matrimonio dei miei genitori, senza sapere che poco tempo dopo avrei detto addio alla mamma, travolta da una folla di amici e di amore. E avvolta da un arcobaleno senza pioggia. In quella chiesa ho accompagnato mio fratello all’altare. Ho visto mia sorella piccola dire sì al suo amore. Sono su quel sagrato. Inquadro. Cerco la luce giusta. E sono a casa.
Terza tappa: terza foto. Il campo da basket. Nel grande giardino condominiale di un brutto palazzo degli anni settanta avevamo il lusso di un campo da tennis e di un buffo campo da basket con un solo canestro.
Su quel cemento rosso ho pattinato, corso, finto di essere Mimì che si allenava per diventare una campionessa di pallavolo. Ho passeggiato con il cane, giocato al negozio di verdure raccogliendo aghi di pino, foglie, ghiande. Ci ho studiato nelle fresche serate estive. Ci ho ascoltato musica sdraiata al sole. Il campanile della chiesa sempre di guardia. Le colline in lontananza. Il palazzo a portata di voce per essere chiamata a cena. È pronto!
Ora piove. Il cielo è grigio. Ho il cappuccio sulla testa. La macchina fotografica al collo. C’è silenzio. Sento la pallina da tennis che rimbalza con un rimbombo conosciuto. La voce del nonno che dice: Lucia stendi quel braccio. La nonna che chiama a tavola. Sento Penelope che abbaia. La mia voce che ripete le declinazioni greche. Calpesto le foglie umide. Merce del mio mercatino. Le ruote dei pattini che scivolano su quel pavimento scalcinato e trascurato.
Sento il profumo della mamma.
Ora salgo a pranzo da papà. E mischio passato e presente in questo grigio e dolcissimo giorno.
Me la cavo con le parole. Molto meno con le fotografie. Ma non importa. Ora so che certi scatti sono così potenti da essere belli. Anche se fatti da una mediocre aspirante fotografa. Anche se restano importanti solo per me. Anche se ho sbagliato perché ci voleva un F5.6 e non 3.5. Anche se sbaglio i tempi. Questo scatto sono racconto, sono storia, sono me. Che sono tornata a casa. 















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