

Sono sul treno per Firenze. Mentre guardo fuori dal finestrino, noto la mia immagine riflessa. Mi tornano in mente, improvvisamente e senza un apparente collegamento logico, le gite con la scuola, o i campi con la parrocchia: tutte quelle situazioni nelle quali vedere la mia immagine riflessa, che fosse sul treno o nello specchio della stanza che condividevo con le amiche, mi provocava un senso di inadeguatezza che ricordo ora come se non fossero passati trent’anni. Trent’anni, già.
Era come se quegli specchi rimandassero un’immagine distorta di me, o comunque peggiore di quella che vedevo quando ero da sola, nel bagno di casa mia.
Guardavo le ragazze che erano con me e mi sentivo sempre più brutta, con i capelli peggiori, i vestiti più inadatti. La mia amica era sempre quella carina, che piaceva al ragazzo di cui mi innamoravo io, era quella che mi sembrava bellissima, come tutte attorno a me, del resto.
Io invece ero quella senza seno, quella che chiamavano Olivia per via delle gambe magrissime, quella che “preferisco la tua amica”. Non so quando ho iniziato a capire che potevo concentrarmi su altro. Quando ho iniziato a ridere di me prima che lo facessero gli altri, quando ho cercato di sviluppare l’ironia visto che altre cose non ne volevano sapere. So che per moltissimi anni, già giovane donna, ho continuato ad avere qualche collega, amica, conoscente a cui mi sarebbe piaciuto assomigliare, con il suo naso perfetto, l’abbigliamento giusto, quel modo di fare.
Poi sono successe cose, ho ripreso in mano la mia vita e con i capelli ho tagliato qualche insicurezza. Ho capito che ce la stavo facendo quando, e so che sembra sciocco, mi sono lasciata fare una fotografia di profilo e me ne sono fregata del fatto che l’avrebbero vista tutti, accorgendosi del mio naso non proprio alla francese. Io che da ragazzina non volevo sedermi accanto a nessuno per non essere notata nella mia terribile imperfezione. E poi un giorno mi sono resa conto che non c’era più nessuno a cui sentissi di dover assomigliare e neppure a cui volessi per forza piacere. Non c’era il modello di me che non riuscivo a raggiungere. Ma che c’ero io. Finalmente io. Con il mio profilo, la mia seconda scarsa, la mia capacità di riderci sopra. E sì, con la mia tenacia, la mia voglia di migliorarmi, la mia passione per le cose che faccio. C’ero io con la mia voglia di essere me. Quella me che avevo perdonato per non essere all’altezza e che ora, forse all’altezza lo era pure. Quella me che viaggia, studia, ce la mette tutta. Quella me che legge un sacco, veste così così, fa il possibile per essere una brava persona, una madre accettabile e una buona amica. Quella me che ha imparato, momento dopo momento, taglio di capelli dopo taglio, tra voli altissimi e cadute rovinose, a volersi così bene da bastarsi.
Ma perché oggi, guardandomi riflessa in quel finestrino, ho sentito l’urgenza di scrivere questo? In quello sguardo ho rivisto quel ragazzo e quella ragazza, più giovani di me, meno attrezzati della me di oggi, che magari leggendomi capiranno prima di quanto abbia fatto io che si può imparare a costruire una versione di noi che ci piacerà un sacco. Anche quando chi ci sta intorno ce lo fa credere impossibile.
Non quella di chi non vede i propri difetti eh, ma di chi quei difetti ha imparato ad amare. Come ho fatto io con il mio profilo o con l’idea che per me ci voglia un reggicostole e non un reggiseno, come mi disse quel ragazzino davanti a scuola. E davanti a tutti i miei compagni. Faceva ridere quella battuta. Ora lo posso dire. Avrei voluto che mi facesse ridere anche allora. E vorrei non avere pianto tanto quel giorno. O forse, in fondo, va bene così. Perché mi piace pensare che la quarantaseienne che sono oggi e che, mi perdono la presunzione, mi piace parecchio, deve qualcosa anche a quel ragazzino.
Così, mentre il treno si avvicina alla stazione di Firenze, sorrido a me stessa e mi dico che non è stato sempre facile ma che le cose prendono quasi sempre il verso giusto. Forse serve solo trovare strade fuori dalle rotte più battute e prepararsi a un po’ di fatica. Ma alla fine, ragazza o ragazzo che ora non lo credi possibile, ripenserai con gratitudine a tutte quelle cose che ti sono successe. E un giorno, guardandoti nel finestrino di un vagone dell’alta velocità, ti sarà tutto, finalmente, chiaro.
Fai buon viaggio.







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