Sono tornata da qualche giorno. Ho ripreso l’abitudine di alzarmi prima dell’alba per fare yoga. Dalla Namibia ho portato qualche chilo di troppo. Così, appena fa luce, esco per una camminata. Sono nel parco vicino a casa, è presto: poco rumore, poche persone, io e i miei pensieri. Mentre metto i piedi uno davanti all’altro tenendo un ritmo veloce, mi ritrovo a pensare a questo viaggio. Mal d’Africa mi avevano detto. Ti renderai conto di cosa significa. Poi capirai.

Non so come si possa definire questa sensazione che prende chi ha avuto il privilegio di andare laggiù, ma per me ha molto a che fare con il senso di mancanza. Ed è così che provo, in questo diario di un viaggio straordinario, a raccontare cosa, della Namibia, mi manca.

Mi manca guardare fino all’orizzonte senza percepire la presenza umana. Mi manca sentirmi piccola e insignificante di fronte a una natura potente e dominante. Mi manca cedere la strada a una coppia di rinoceronti che non si preoccupano di noi.

Mi manca il silenzio che preme sulle orecchie e quasi ti stordisce. O quel cielo basso che sembra caderti addosso con un numero incalcolabile di stelle così luminose da farti credere di essere nello spazio. Mi manca il chiarore potente della via lattea. Mi manca la luna al contrario.

Mi manca sobbalzare sulle piste sterrate. Mi manca arrampicarmi sulla Big Daddy come se scalassi una montagna e sentire la sabbia che si infila nelle scarpe e tra i capelli. Correre a perdifiato dopo avere percorso il crinale della duna senza riuscire a credere di essere davvero lassù. Mi manca la sensazione di essere sulla luna quando davanti a me si staglia la dead vlei avvolta dalla nebbia e riconoscerla non appena le nubi si alzano per lasciare spazio al cielo blu che si appiccica al rosso delle dune e al bianco della terra secca. Mi manca sentirmi come mi sono sentita in quel momento.

Mi manca passeggiare tra le case di Kolmanskop, mangiate dalla sabbia, e immaginare come doveva essere vivere lì.

Mi manca fare a gara con i miei compagni di viaggio su chi indovina per primo che animale è quello che abbiamo appena visto. La voce dalla radiolina: orice sulla destra. Springbok davanti a voi.

Mi manca lo sguardo di quella giraffa che, con la testa abbassata e un battito di ciglia, sembra dirmi: “Ehi ti riconosco. Sei una di noi”.

Mi manca il fragore dell’oceano sulle rocce. Il frastuono delle otarie, l’elegante incedere dei fenicotteri rosa. Mi mancano le carezze alle foche che, come cuccioli affettuosi, cercano attenzioni mentre io provo a pagaiare con uno stile imbarazzante.

Mi manca Leslie, la sua fattoria, le sue stanze senza elettricità e l’acqua calda fatta con la stufa a legna. Mi mancano il suo vino, il suo inglese malandato, il suo purea e le sue uova strapazzate.

Mi manca fare yoga sulla spiaggia, aspettare il tramonto a Luderitz mentre facciamo foto sceme. Attendere l’alba ogni mattina. E sorprendermi che sia più bella di quella del giorno prima. Mi manca meditare sulle dune di Sandwich Harbour mentre piango pensando a mia madre. E mentre desidero, con tutta me stessa, che lei mi stia guardando e gioisca per la mia immensa felicità.

Mi manca bere il te nella sala relax della casa di Swakopmund, con la cartina aperta sul tappeto mentre programmiamo il giorno successivo.

Mi manca stendere la biancheria sui sacchi della spazzatura trasformati in fili da bucato, le ombre cinesi sull’arco di Spitzkoppe. Mi mancano i sassi lisci su cui arrampicarmi e dai quali non so scendere. Mi mancano i sorteggi per i posti sulle jeep, la lentezza africana che sa di tempo prezioso. I sorrisi che mostrano denti bianchissimi. I saluti dei bambini e degli adulti.

Mi manco io come sono quando sono in viaggio: sporca, vestita male ma così piena di gioia e gratitudine che per forza peso di più.

Mi mancano le pacche sulle spalle, gli abbracci, i sorrisi, le risate rumorose, le canzoni dei cartoni animati e quelle da discoteca. Mi manca la macchina fotografica al collo, la sveglia per vedere l’alba ancora e ancora, la pozza dei rinoceronti la sera. Mi mancano i giochi dei cuccioli di elefante, gli alberi faretra illuminati dal primo sole del giorno. La polvere, la pipì dietro i cespugli, la pasta al sugo cucinata in casa. I gechi fosforescenti, i camaleonti che dormono ignari delle nostre foto. La torcia da fronte.

Mi mancano queste e moltissime altre cose. Ma in fondo, a pensarci bene, non mi manca nulla. Mentre scrivo il mio elenco mi accorgo che la mancanza ha a che fare con qualcosa che non c’è. O non c’è più. E invece tutto questo è qui. Presentissimo non solo nei ricordi ma nel mio essere. Non esiste viaggio che non ci cambi un po’ e che non lasci in noi qualcosa di sé. Allora no, il mio mal d’Africa non è ciò che manca ma ciò che resta, ciò che ho portato a casa con me. Ed è qualcosa di molto più concreto di un ricordo, di una nostalgia o di un’immagine. E’ un altro, ancora diverso, modo di stare nel mondo.

Un pomeriggio ho perso nel deserto un ciondolo a cui tenevo molto. Il regalo di una persona che nella mia vita è fondamentale e preziosa. Mi piace pensare che sia rimasto sotto la sabbia per tenere tra quelle dune un pezzo di me. E che sia la promessa che un giorno tornerò. E anche questa perdita non è più mancanza ma presenza.

Ho concluso la mia camminata. Il parco inizia a riempirsi di runners, padroni di cani, signori con il giornale sotto braccio. Alzo lo sguardo cercando quell’orizzonte sconfinato che non vedo più ma che so dove trovare. Ascolto i miei passi sull’asfalto che non ha il colore rosso della sabbia del deserto del Namib. Eppure, ne sono quasi certa, ho sentito un sussurro. Ascolto meglio. Sì, l’ho sentito davvero.

Hakuna Matata. Hakuna Matata.

Cammino verso casa e sorrido.

Così, senza pensieri.

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Sono Lucia

“Ogni viaggio è una tappa verso la donna che vuoi essere.”
Io sono partita tante volte… e ogni volta ho lasciato indietro una parte di me per far spazio a quella che stava nascendo.