Viaggio. Ogni volta che posso. Meno di quello che vorrei. Non credo di potermi autodefinire ancora una vera viaggiatrice, ma muovermi per il mondo, che sia dietro casa o a migliaia di chilometri, è diventato, nel tempo,  essenziale alla mia sopravvivenza. Questa necessità inderogabile è cresciuta negli anni, a poco a poco, valigia dopo valigia, una esperienza alla volta, fino a diventare cibo per la mia anima affamata di nuovo, di conoscenza, nutrita dalla scoperta della ricchezza che nasce dall’incontro con le differenze. Non posso più farne a meno. Ogni volta che torno da un viaggio mi scopro diversa e, credo, anche migliore.

Ripercorrere la mia vita adulta, coincide, dunque, con il ricordo di viaggi, vacanze, gite, avventure. Sono cresciuta, maturata, cambiata. Ho riconsiderato posizioni, cambiato idea, abbattuto giudizi e pregiudizi, ho confermato convinzioni e scoperto cose che mai avrei immaginato. Sono diventata la donna che sono anche grazie ai chilometri che ho percorso. Alle persone che ho incontrato. Ai panorami che hanno colpito i miei occhi. Alle sensazioni che si sono tatuate sulla pelle. Ho imparato a guardare in modo diverso, ad ascoltare storie, a raccontarle, a mia volta. E ho, anche, imparato a mangiare. Il cibo ha accompagnato ogni esperienza che ho fatto fuori dalle sicure e conosciute mura di casa. Ho dovuto fare amicizia anche con il cibo che ho incontrato, e mi accorgo che la mia capacità di aprirmi al diverso, allo sconosciuto e all’inaspettato è maturata attraverso ciò che mi ha nutrita e, in qualche modo, costruita.

E allora ecco il mio diario di viaggio, un filo lunghissimo che va dal mare della Puglia al cielo dell’Iran attraverso sapori e profumi. Ancora molte pagine sono da scrivere, spero. E ancora tanti gusti attendono il mio palato.

Del Salento ricordo le discussioni con i miei genitori al tavolo del ristorante di turno quando, granitica e piena di argomentazioni valide, ordinavo il mio piatto di tortellini alla panna: che già per mio padre, bolognese fino al midollo, il tortellino è rigorosamente in brodo. Non sono previste discussioni, deroghe o scuse di alcun tipo. Chiedere poi i tortellini alla panna in Salento era come rinnegare intere generazioni di bolognesi. Alla fine, ovviamente, vincevo io anche se, a volte, cedevo a un piatto di spaghetti al ragù, altro insulto alla cucina tipica, e la mia felicità era direttamente proporzionale alla delusione inflitta ai miei genitori.

Il peggio però doveva ancora venire, e sarebbe arrivato a Londra. Bellissima città, esperienza indimenticabile, ancora con i miei genitori. Ma non si può chiedere a una ragazzina di 14 anni di amare il cibo inglese. Non si può. Così decisi di rivendicare la mia autonomia di adolescente alle prime armi, nutrendomi solo con pane e burro salato per tre giorni. I miei però avevano una carta da giocarsi: il bellissimo ristorante di pesce, affacciato sul Tamigi, noto per il suo favoloso salmone. Non potevano immaginare che sarei riuscita a farmi portare una frittata, che il cameriere chiamava omelette per dare a quelle uova strapazzate, e del tutto inadeguate al luogo, una dignità tra l’esotico e lo chic.

Nei quasi trent’anni successivi, l’episodio del salmone è stato più volte raccontato dai miei genitori ad amici e parenti, con il solo scopo di rinfacciarmi tanta ignoranza gastronomica.

Credo sia stato un sollievo per la mia famiglia che io abbia iniziato a viaggiare da sola, senza che nessuno fosse più obbligato a vedermi fare scempio della cultura altrui con le mie scelte sconsiderate.

Dopo qualche anno di vacanze in tenda, tra cibo in scatola, wurstel e cene che noi consideravamo di un certo livello, con la presunzione tipica dei vent’anni, arrivò Parigi.

E qui,  feci il mio primo tentativo di accostarmi alle tradizioni locali. A ripensarci adesso, fu un approccio timido e forse neppure così filologicamente corretto, ma fu un inizio. Ci avevano parlato di questo locale chiamato Léon, famoso per le decine di varianti di ricette con le cozze. Che poi io le cozze non le amo neppure tanto. Comunque. Quella sera io fui molto saggia: ordinai le cozze fritte, che sono senza guscio e senza sughi, il che semplifica moltissimo le cose, se ti trovi a mangiare a massimo 5 cm dal tavolo al tuo fianco. Meno lungimirante fu il mio fidanzato che ordinò un classico piatto di cozze, con annesso sugo di pomodoro. Per una volta non fui io a sporcare tovaglia, abito e vicino di tavolo. Ovviamente la cena successiva fu in una mediocre pizzeria italiana, ma eravamo certi di essercela meritata.

Poi arrivò l’America. Prima tappa: New York. Tutto quello che potevamo permetterci erano gli hot dog nei chioschi di strada. Ricordo ancora il giorno in cui decidemmo di fare il più tradizionale dei pasti americani e ci mettemmo sulle tracce di un Mc Donald’s. Trovarne uno a Manhattan è più o meno come cercare un bicchiere di vino in Indonesia. E parlo per esperienza, anche se alla fine uno lo abbiamo trovato. Entrare in un Mc Donald’s quando si è in viaggio assomiglia a un teletrasporto in giro per il mondo. Potresti essere a Bologna, come a Tokyo, a Buenos Aires o a Stoccolma. Abbandonare i rassicuranti fast food globalizzati è una delle conquiste di cui vado più fiera come aspirante viaggiatrice.

I giorni a Miami non furono molto diversi, anche se sulle colazioni iniziavo a spaziare, azzardando mix di dolce e salato cui mi sarei presto convertita con determinata convinzione.

Dopo una intera settimana americana, non potrò mai dimenticare l’emozione e la gratitudine con cui accolsi il primo buffet sulla nave da crociera. Italiana. Un tripudio di verdure, ciotole di pomodori, lattuga, carote che mi sembravano avere un colore così accesso da essere finto. Potevo mangiare mozzarella, zucchine. Niente fritti, niente bacon, niente wurstel. Su quella nave, a migliaia di chilometri da casa, io ero di nuovo in Italia. E al tempo, tanto tempo fa, questo mi dava un grande senso di sicurezza e di appartenenza. Quanto sarei cambiata non potevo ancora immaginarlo. In fondo ero solo all’inizio del mio viaggio.

Le successive vacanze in Grecia e in Croazia rappresentarono il mio primo approccio meno timido alla cucina locale. A Rodi c’era l’immancabile Ghianni. Con il nostro scooter uscivamo dalle strade turistiche e raggiungevamo ogni sera questo ristorantino a conduzione familiare, con pochi tavolini all’aperto. Ricordo perfettamente quel luogo, con il suo pergolato bianco, rivestito di piante rampicanti e i gatti che camminavano sui tavoli in cerca di qualche gustosa elemosina. Ricordo i calamari fritti e l’insalata greca che mangiai per la prima volta e che, da allora, continuo a preparare spesso anche a casa.

La Croazia fu una bellissima scoperta sotto molti punti di vista. In ogni spiaggia c’era un piccolo ristorante all’aperto dove si mangiavano meravigliose grigliate di carne o di pesce. Di quei luoghi ricordo il profumo che arrivava verso mezzogiorno, mentre facevamo il bagno. Era il profumo di quella terra. Era pesce di quel mare. Portava con sé la storia dei pescatori che ogni notte uscivano con le barche per rientrare all’alba. Una storia di lavoro, un lavoro duro ma che in quei luoghi era un ritorno alla normalità da poco ritrovata: erano, infatti, ancora aperte le ferite di una guerra terribile, ferite dalla forma delle mine ancora sparse nei campi, o dei buchi di proiettile sulle case. Mangiare quel pesce così buono, con negli occhi un mare tanto bello, aveva il sapore della rinascita.

Iniziavo a percepire che i paesi che visitavo avevano un passato, avevano una storia da raccontare ed io volevo conoscerla. Era un seme che iniziava a farsi spazio. Era la nascente consapevolezza che per scoprire un paese occorre conoscere il suo popolo e che un popolo si identifica anche nel proprio cibo. Quel pesce alla griglia fu, probabilmente, il ponte verso un nuovo modo di approcciarmi a quell’arte meravigliosa che è il viaggio.

Il pesce tornò dopo poco tempo. E lo fece a colazione.

Stoccolma. Inverno 2002. -17 gradi di media. Eravamo ospiti di una famiglia svedese. Le aringhe a colazione sono stata una delle mie esperienze più estreme. Quanta strada avevo fatto da quella frittata londinese!

Ma la Svezia, oltre a rappresentare una grande evoluzione nella mia apertura al nuovo, fece anche crollare uno dei più tipici pregiudizi che noi italiani abbiamo sugli stranieri. La pasta asciutta. Quando la mamma del mio amico Pär ci annunciò orgogliosa che per cena, in nostro onore, avrebbe cucinato spaghetti al pomodoro, mi passarono davanti le peggiori scene di film che avevo visto. E invece: pasta al dente, sugo perfetto. Luoghi comuni smentiti. Ecco un’altra cosa che amo tantissimo dei viaggi: si parte con tante convinzioni dentro la valigia. Si torna più leggeri. Ed è una sensazione impagabile.

Passarono alcuni anni prima che potessi nuovamente affacciarmi al mondo e lo feci con una grande novità ad accompagnarmi: mio figlio. Il primo viaggio con lui. Destinazione Norvegia. La ricerca spasmodica di un Burger King da parte di Tommaso, e il tentativo quasi sempre fallimentare di convincerlo a scegliere qualcosa di più tipico, mi ricordò impietosamente i miei tortellini alla panna in Salento. La ruota girava. Ed ora ero dall’altra parte.

Poi ci fu il cervo assaggiato a Copenhagen, il meraviglioso cibo turco, guardando i minareti e ascoltando il canto del muezzin. Il tajine sul terrazzo a Piazza Jemaa el fna a Marrakesh, una delle piazze più belle del mondo. Di sicuro la più folle, dove il cibo sembra comparire all’improvviso in decide di bancarelle al tramonto. Dove mangiare diventa una festa popolare coloratissima e rumorosa. Decine di nazionalità diverse si incontrano a tavola e la cena diventa un vero spettacolo multietnico.

O la zuppa a Varsavia. Squisita, mangiata in un ristorante semplice e accogliente. Calda contro il freddo del novembre polacco. Calda contro il freddo della storia orribile di un popolo che non si può non amare. Ogni strada trasudava memoria. Ogni angolo parlava dell’offesa subita. E ripetuta. Quella zuppa scaldava il cuore e dava valore a un gesto semplice come sollevare un cucchiaio.

Dalla fredda Polonia alla colorata Andalusia. Chiunque sappia che andrai in Spagna non potrà fare a meno di dirti: mi raccomando le tapas. E così ho fatto: tapas, tapas e ancora tapas. Ho passato i primi due giorni a ordinare tapas e a rimanere perplessa perché ogni volta arrivava qualcosa di diverso. Poi come spesso succede, è arrivato Google a illuminarmi: “con il termine spagnolo tapa si indica un’ampia varietà di preparazioni alimentari, tipiche della cucina spagnola, consumate come antipasti o aperitivi”. Un altro meraviglioso aspetto del viaggio è il fatto che imparerai sempre qualcosa di nuovo: e che le tapas non sono un piatto tipico andaluso. Tornai a casa con una nuova consapevolezza e un po’ di vergogna.

E poi arriva il momento di assaggiare la vera pizza napoletana. E chi è stato a Napoli sa cosa voglio dire. Gli occhi brillano, la masticazione rallenta. Il rumore attorno a te cala e ti senti già un po’ partenopeo anche tu. La pizza napoletana è la metafora della vita felice: è inutile perdersi dietro centinaia di gusti, tanto i migliori sono quelli semplici, quindi non sprecare tempo in scelte superflue. Tieniti stretti i sapori più importanti, non avere fretta, e scopri che le cose che vengono meglio, sono quelle che entrano in un forno sotto al Vesuvio.

Del Portogallo ricordo la lunghissima fila che tutti fanno a Belen per mangiare i famosissimi pasteis de nata: un selfie davanti alla pasticceria è quasi un dovere, una prova che non sei stato così sciocco da perderti una delle gioie della vita.

Poi arriva un giorno che voli in Indonesia. E visiti scuole e centri ricreativi in alcuni dei più poveri villaggi di Giava. E allora scopri che il cibo è condivisione vera, quella di chi non ha quasi nulla ma lo vuole donare a te. Per dirti grazie di essere lì. Per loro. Ti senti accolto come se non avessero aspettato che quel momento. Assaggi dolci stupendi, riso piccantissimo, pollo, uova, salse di ogni colore. Mangi con le mani, usi le foglie di palma come piatto, e ogni tuo boccone è motivo di gioia per i tuoi ospiti. La mia settimana indonesiana è stata scandita dal cibo. Con i miei compagni di viaggio facevamo i turni ad accettare le offerte, così da dividerci la fatica di mangiare. Era impossibile rifiutare di assaggiare qualcosa. Dalla casa di una famiglia poverissima, uscimmo con un casco di piccolissime banane. Le più buone che abbia mai mangiato. Sono costosissime là. Ma non importava, perché in Indonesia i soldi non contano quanto l’ospitalità. Sono tornata a casa con qualche chilo in più e con una gratitudine infinita per la lezione che ho portato con me: i sorrisi candidi di chi, non avendo quasi nulla, non ha bisogno di appropriarsi davvero delle cose, e può godersi ancora il grande lusso che noi abbiamo perduto: quello della generosità.

Ho visto un ultimo luogo, finora, ed è con questo che voglio chiudere il mio lungo racconto di viaggio e di cibo. Perché non è solo un viaggio. È un grandissimo sogno che mi sono conquistata. È una conferma e una scoperta allo stesso tempo. È stata una sfida grande, contro i pregiudizi, contro l’ignoranza, contro la paura. Sono andata in Iran. Potrei scrivere centinaia di pagine su questo paese meraviglioso. Forse un giorno lo farò.

Ma qui, ne scriverò come mi viene meglio. Con una lista. La lista delle cose buone che ho assaggiato sotto il cielo dell’Iran.

Il lavash, il miglior pane del mondo. Tondo. Venduto per strada o regalato da un fornaio a cui hai solo chiesto di fare una fotografia. Il tè offerto fuori da una moschea a Yazd. E ad ogni angolo delle strade.

L’acqua zuccherata che ti porta un signore anziano a cui hai chiesto indicazioni stradali. Il pollo con riso e zafferano a Darband, un incredibile villaggio di ristoranti ai piedi di Teheran.

Il gelato persiano che un signore vuole per forza offrirti. Perché non puoi non assaggiare un gelato persiano.

La carne di cammello. Buonissima.

I colori sfacciati delle spezie. Il loro profumo costante che ci accompagna.

Il dizi, perché non si può non provare. Ma non lo farai più. Certe esperienze devono restare irripetibili.

E quell’indimenticabile pic-nic in Imam Square a Isfahan. Comprare una zuppa per strada, una coca cola con la scritta in persiano, sedersi sul prato e sentirsi parte di un popolo meraviglioso, che sa ancora cosa significa stare insieme, essere comunità. Sorridere alle donne sedute accanto a noi con le proprie famiglie, complici e vicine, molto più vicine di quanto avrei mai creduto prima di partire. Noi, goffe con il nostro velo portato da loro con delicata eleganza, ma fiere di essere lì, su quel prato.

Ordinavo tortellini alla panna in Salento, ho condiviso una zuppa con uomini e donne persiane. E ho imparato che le aringhe sono buone anche a colazione. È stato un lungo viaggio. Un viaggio fatto di insegnamenti, di esperienze, di inciampi, di salite. È stato un viaggio faticoso, emozionante, a tratti esaltante e commuovente.

Ho imparato a viaggiare. Ho imparato a mangiare. Forse è tutto qui il segreto del vivere felici. Uscire dal nostro piccolo recinto. Avere il coraggio di guardare sempre un po’ oltre l’orizzonte. Avere il coraggio di assaggiare un sapore nuovo. Perché dietro quel sapore c’è una storia. E vale la pena scoprire qual è. Vale poi la pena raccontarla e ricordarla.

Si. Non si torna mai uguali da un viaggio. Il mio desiderio è quello di continuare a cambiare. Con i miei viaggi. Con i sapori di questo meraviglioso, incomprensibile, contraddittorio mondo. E di raccontare che là fuori c’è una gigantesca cucina che ci aspetta, ovunque e sotto il cielo dell’Iran.

 

Una replica a “Un pic-nic sotto il cielo dell’Iran.”

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Sono Lucia

“Ogni viaggio è una tappa verso la donna che vuoi essere.”
Io sono partita tante volte… e ogni volta ho lasciato indietro una parte di me per far spazio a quella che stava nascendo.