Da Madonna dei Fornelli a Firenze in 3 giorni. 81 Km. 19 ore di cammino. Più di 2000 m di dislivello. Raccontata così, la decisione di incamminarsi sembra folle. E forse un po’ lo è anche. Ma avevo sentito racconti di cammini e viandanze così affascinanti e sorprendenti da voler provare anche io, nel mio piccolo, cosa si prova a percorrere a piedi lunghe distanze, per qualche giorno, fino alla meta stabilita. La via degli dei è perfetta: vicina a casa, conosciuta, abbastanza semplice. Si fa. Coinvolgo mio fratello, perché è da tanto che non facciamo qualcosa insieme. E si parte.
Lo zaino deve essere leggero, ogni oggetto va ragionato con attenzione e aggiunto solo se indispensabile. L’acqua deve essere sufficiente, ma non troppa. Gli imprevisti vanno presi in considerazione. Le scarpe devono essere scelte con cura. Le tappe sono stabilite. Siamo pronti.
Il cammino è iniziato. Non so cosa aspettarmi. So però che sarò sorpresa. Mi metto in ascolto e inizio a collezionare momenti.
Quando cammini da un po’, nella natura di un bosco, o in mezzo a prati e campi, o anche sui tratti di asfalto, in discesa o in salita, i tuoi sensi di risvegliano. Ascolti il rumore dei passi, e scopri che ognuno ha un suono diverso: quello delle foglie secche, dei sassi, della terra bagnata, della ghiaia. Quello sicuro e quello incerto, quello semplice e quello faticoso. Anche la vista si affina. Capisci che ogni movimento che fai rappresenta una piccola scelta dalla quale dipende la sicurezza del tuo procedere. E mentre cammini inizi a percepirlo. Ascolti il suono del mondo accanto, degli animali invisibili, del vento e delle sorgenti d’acqua. E poi senti i profumi. Quelli che avevi dimenticato. Ascolti la voce di chi cammina con te, di tanto in tanto. E ascolti i tuoi pensieri. Che si dilatano, come se si facessero rarefatti durante il tuo procedere. All’inizio sono intensi, fitti, disordinati, il silenzio che fai attorno a te dà loro voce. Ma con il passare del tempo, è come se trovassero un ordine loro, come se si dessero delle priorità, nel tentativo di misurare le energie anche del ragionare. E ti ritrovi a riflettere con serietà sullo spostamento del tuo piede, sul movimento del bastone davanti a te. Ti ritrovi a osservare per ore le tue scarpe. Sono da trekking, nulla di troppo professionale, ma comode, adatte allo scopo, anche abbastanza belle da vedere. E improvvisamente ti accorgi che quelle scarpe sono un privilegio, che tu dai per scontato sempre, ma che fanno del tuo cammino qualcosa di semplice. E poi pensi che ci sono uomini e donne o bambini che non avranno mai la scarpa giusta per il loro viaggio. Che forse non avranno nessuna scarpa. Che per quanto sceglieranno il passo giusto, sentiranno sempre male. E cammini anche per loro, in una sorta di processione laica che simboleggia viaggi di sofferenza e speranza. E quando sali per salite impervie e ti chiedi se ce la farai a continuare così per i tanti chilometri che restano, ti dici che sì, ce la farai, perché loro ce la fanno. In fondo la mia è una via degli dei. Un viaggio piccolo, insignificante, che terminerà dove ho deciso io, quando deciderò io. E se continuerò a volerlo.
Il cammino ridimensiona i pensieri e le azioni. Solo ciò che conta davvero resta. Dicono che il viaggio sia più importante della meta. E credo sia vero. Fino all’ultima tappa. Poi tutto cambia. Quando, ormai con molti chilometri nelle gambe, improvvisamente vedi la cupola di Brunelleschi che svetta come un faro nel centro della città che stai per conquistare. La vedi. È lì, vicina, raggiungibile. Sai che mancano ancora quegli ultimi 10 Km che saranno i più lunghi. E in quel preciso istante comprendi che non conta più il viaggio. Conta solo arrivare laggiù. E che sarà difficile. Le gambe cedono il passo alla testa e al cuore. All’ostinazione con cui vuoi arrivare in fondo e darti il cinque con tuo fratello. Riparti. I pensieri si spengono. Resisti. Scendi. Scendi. E poi arrivi. E ti senti un eroe. E ti viene da sorridere perché sai che non hai fatto nulla di eccezionale. Eppure in quel momento ti sembra di averlo fatto ed è giusto che sia così. E ti godi quel cinque con tuo fratello. E la foto fatta in Piazza della Signoria. E ti godi il treno che ti riporta a casa, in mezz’ora, quando tu hai camminato per giorni.
Ho camminato solo tre giorni, solo qualche decina di chilometri. Ma ho camminato insieme agli antichi romani, sulla Flaminia militare, ho camminato con i soldati della Seconda guerra mondiale, lungo la linea gotica. Ho reso omaggio agli sconfitti. Ho ascoltato leggende. Ho scoperto che mio fratello è bravissimo a fare il cinghiale. E che il mio cuore è forte. Che adoro la consuetudine di dirsi “buon cammino”. Che una piscina e un mazzo di carte sono lusso vero se accompagnati a un bicchiere di vino. Che il modo di dire “dopo è tutta discesa” lo ha inventato chi non ha mai camminato in montagna. Che le salite sono dure. Le discese di più. Che il tratto in piano è il miraggio dei viandanti. Ma è raro. Che l’acqua è squisita. Che ho le gambe forti. Lo spirito resiste. La volontà vince. Ho scoperto che sbagliando forse non sempre si impara ma che sicuramente ci si apre a possibilità impreviste. Che gli incontri lungo la via sono speciali. Che la fatica avvicina. Che un b&b può essere casa. E la torta di mele a colazione può fare miracoli. Ho imparato che l’arcobaleno c’è sempre, anche se non ha piovuto. Ho camminato per me e per lui. Ho camminato per lasciare indietro pezzi di me, come briciole lungo la strada. Ne ho raccolti di nuovi e ne farò tesoro.
Ho percorso la via degli dei. Un po’. Ho faticato. Ho ascoltato. Ho guardato. Ho pensato. Ho lasciato e ho preso. Tutto sommato, nel mio piccolo, ho fatto un buon cammino.







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